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CINEMA: Intervista a Kumjana Novakova, Silence of Reason vince al Cinema du Réel – East Journal

1 Aprile 2024
Silence of Reason di Kumjana Novakova vince il premio al miglior film internazionale del Cinema du Réel, dopo aver già trionfato a Torino e Sarajevo. Abbiamo intervistato la cineasta bosniaca nell’ambito del festival documentaristico parigino.
Posso solo immaginare, a livello emotivo, il senso di responsabilità possa essere quasi paralizzante, quando si tratta di temi così importanti come quello di Silence of Reason. Com’è stato per lei affrontare l’argomento del film?
Ho vissuto in Bosnia per 17 anni, quasi tutta la mia vita adulta. Da un lato si, è travolgente pensare al film come un film sulla guerra in Bosnia, dall’altro io non mi approccio al cinema pensando di fare un film riguardo ad un tema. Faccio film che sono il più possibile vicini allo spazio in cui abito, e cerco di aprire questo spazio attraverso il mezzo cinematografico. Quindi il modo in cui penso al passato recente della Bosnia è come essere umano, che vive nelle conseguenze future di questo passato che è stato predeterminato per noi, e perciò, sono entrata nello spazio del cinema come una donna che vive in Bosnia. Non penso in termini sistemici, non mi pongo l’obiettivo di fare un film su questo o quel tema. Faccio un film che posso fare solo io, e ho fiducia in questo procedimento. E poi arrivo ad un luogo cinematografico che è sempre il più vicino possibile alla mia esistenza, o, nel caso di Silence of Reason, una specie di storiografia femminista, che è anche la nostra storiografia.
Lei ha lavorato già con materiale d’archivio, cosa la attrae in questa fonte di materiale?
Per me è molto interessante entrare nel processo di ricreare, riutilizzare, ripensare le immagini che sono state create in un contesto diverso, perché le immagini di archivio catturano una certa realtà che è dentro di noi. Sono distanti, perché sono istituzionalizzati, anche sotto una certa forma di protezione. Allo stesso tempo fanno parte di quella che consideriamo la memoria collettiva. Per me come cineasta, la possibilità di intervenire è particolarmente intrigante, ti ri-archiviare questo materiale sullo schermo del cinema, non solo per preservarli in una forma diversa, ma anche ritrovarli e rimostrarli in modo diverso, con tutte le possibilità che il cinema ha.
Quindi, Silence of Reason in un certo senso vuole elevare a cinema questo materiale?
Non penso che chiunque possa dare voce a qualcun altro, è una posizione estremamente problematica, che presuppone una specie di autorità del regista ed una posizione gerarchica dell’arte. Per Silence of Reason, ho letto gli archivi, le esperienze delle donne che hanno testimoniato. L’unica cosa che ho fatto io era aprire archivi che altrimenti non sarebbero stati accessibili, e ho trasposto quegli archivi sullo schermo. Quindi è uno documento cinematografico riguardo ad un processo attraverso il quale le donne che sono sopravvissute alla violenza si sono alzate in alto, sopra al trauma individuale, per cambiare le vite delle donne che sarebbero venute dopo di loro. La legge internazionale non avevo riconosciuto lo stupro come un crimine di guerra e crimine contro l’umanità fino a questo processo. Se queste donne non avessero trovato la forza di testimoniare, e non avessero usato la propria voce, non saremmo nella posizione in cui ci troviamo oggi.
Inevitabilmente, devo chiederle riguardo all’aspetto estetico: Silence of Reason ha una chiave visiva molto distinta ed identificabile, come lo ha sviluppato?
Sono una cineasta che usa quello che trova. Il processo artistico prevedeva tradurre questi enormi archivi legali in un’opera che possa essere condivisa sullo schermo. Abbiamo in un certo senso “attivato”, per usare un’espressione più precisa, gli archivi della corte. Era quindi una specie di processo creativo definito dalla ricerca all’immagine perduta. CI si approccia allo spazio dell’archivio e ci si imbatte in molti testi, qualche registrazione audio o audiovisiva, poche fotografie forensi. La chiave era che pur essendoci audio che fanno riferimento o immagini che rappresentano i luoghi, resta sempre mancante l’atto del crimine stesso, non viene mai mostrato o rappresentato. Questo ci guidava alla ricerca di un linguaggio.
In effetti, forse è proprio uno dei punti di forza che ho trovato nel film, non vediamo mai le sopravvissute, ma comunque sono chiaramente identificabili con le loro personalità ed il modo di esprimersi.
Grazie! Era molto importante per noi. Parte del sistema di valori patriarcale consiste nel disumanizzare chi sopravvive a questi atti. E questa disumanizzazione consiste nel ridurre il superstite all’atto del crimine, qualcuno che sopravvive ad un crimine e basta. Per noi era importante ricostruire le personalità, attraverso quello che trovavamo. Chiaramente non era possibile trovare un’intervista in cui si chiedeva il colore preferito della testimone n. 87 ma ci sono elementi e dettagli che cerchiamo di ancorare, Quando ho letto il materiale, era organizzato in termini legali, per giorno di processo, io ho letto i documenti seguendo ciascuna donna che testimoniava, così ho ricreato i loro personaggi e loro sono diventati la struttura dell’archivio.
Personalmente, Silence of Reason mi ha provocato una certa angoscia per quanto riguarda la possibilità imminente che eventi simili possano ripetersi. Era nelle sue intenzioni lanciare un monito al futuro?
La violenza sessuale fa parte del presente, è parte di ciò che siamo. Viviamo in un patriarcato radicato, è molto più complesso di come vorremmo che sia. E dobbiamo riconoscerlo se vogliamo incominciare un cambiamento. SIlence of Reason punta ad un caso specifico, ma anche a pratiche presenti da sempre nel corso della Storia, nel passato, e se non facciamo nulla,  nel futuro. Siamo testimoni di un altor genocidio in Palestina nel quale sappiamo che si stanno verificando pratiche di violenza sessuale, e non ne è stata pubblicata nessuna inchiesta giornalistica seria. C’è ancora silenzio e ci sarà ancora silenzio attorno ad esso. Quindi, come dicevo, Silence of Reason è un documento specifico, ma può essere un documento che si riferisce a qualsiasi conflitto nel mondo, sfortunatamente.
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MICHAEL L. GIFFONI
Diplomatico di carriera dal 1992 al 2014 ha ricoperto numerosi e delicati incarichi nazionali ed europei, in Bosnia e nel resto dell’ex-Jugoslavia. E’ stato Capo della Task-force per i Balcani dell’Alto Rappresentante per la Politica estera Ue, Javier Solana, poi per 5 anni primo Ambasciatore d’Italia in Kosovo (2008-2013) ed infine (2013-14) Capo Ufficio per il Nord Africa e la Transizione araba al Ministero degli Affari esteri.
ALESSANDRO AJRES
Professore di Lingua Polacca all’Università di Torino, si occupa di letteratura e linguaggio contemporanei. è promotore del Festival Slavika di Torino. Autore e traduttore, ha pubblicato “Avanguardie in movimento. Polonia 1917-1923”
e “L’autobiografia italiana nei racconti di Gustaw Herling-Grudziński”. Ha tradotto “Brucio Parigi” di Bruno Jasieński.
GIOVANNI CATELLI
Scrittore e poeta, esperto di Europa orientale, ha pubblicato racconti e articoli sulla Nouvelle Revue Francaise, sul Corriere della Sera, Panorama, Nazione Indiana e l’Indice dei Libri e la rivista praghese Babylon. E’ autore, tra gli altri, di “Camus deve morire”, bestseller tradotto in quattro lingue, e “Parigi e un padre”, per cui è stato selezionato al Premio Strega. Dirige Café Golem, inserto culturale di East Journal
East Journal è una testata registrata presso il Tribunale di Torino, n° 4351/11, del 27 giugno 2011. Direttore responsabile: Matteo Zola

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